Brutta prestazione e sconfitta a Birmingham, ma è comunque Champions.

Il congedo del Chelsea alla Premier 2020/21 è stato ben diverso dalle attese: i blues erano chiamati ad un ultimo "piccolo" sforzo per non dissipare il lavoro di cinque, straordinari, mesi. Una vittoria, magari condita da una buona prova al Villa Park, sarebbe stato il modo migliore per salutare il campionato con una qualificazione Champions in tasca e preparsi in maniera ottimale alla finale di sabato. La qualificazione è stata raggiunta, ma è stata figlia di meriti altrui: la vittoria in rimonta del Tottenham a Leicester ha difatti aperto ai blues una strada, che per più di settanta minuti era rimasta chiusa, sbarrata, invalicabile. Una strada che porta direttamente alla maggiore competizione continentale che gli uomini di Tuchel non hanno saputo trovare da soli, incappati in una delle prestazioni peggiori degli ultimi mesi: squadra apparsa stanca, nervosa, poco coesa, tutto il contrario, insomma, di quello ammirato nel recente passato.

Posto di come una giornata storta possa accadere a chiunque e che il termine preoccupazione sia ben lontano dai campi di Cobham, una piccola analisi sull'ultimissimo periodo dei blues, pare necessaria: tre sconfitte in quattro gare, ma soprattutto, solo tre goal realizzati, sono numeri che mostrano che qualche problema, ad un ingranaggio che rasentava la perfezione, è subentrato. La fase difensiva continua a offrire buona solidità, Mendy non para tutto come per tre mesi, ma questo rientra nella logica o, chiamiamola così, normalità delle cose. Lo scoglio maggiore risulta essere, paradossalmente, quella idea di gioco che ha fatto, per tutto questo tempo, molte delle fortune della squadra: la ricerca della verticalità.

La ricerca della verticalità

Quella che il team di Tuchel ha impostato come password del proprio credo tattico: squadra corta, giro e/o recupero palla e ricerca della profondità a cercare la velocità dei terminali d'attacco: una filosofia che ha di fatto estromesso, ormai da tempo, Giroud e Abraham dal giro delle rotazioni in avanti, ora club esclusivo di attaccanti/centrocampisti offensivi e trequartisti veloci e dinamici. Un circolo capeggiato da Timo Werner, figura per antonomasia della ricerca della verticalità del tecnico tedesco. L'ex attaccante del Lipsia è stato sempre il punto di riferimento della manovra offensiva dell'ultimo Chelsea, una infinità di scatti ed allunghi su cui poggiare l'ego creativo della squadra. Tutto questo, mettendo in conto, la buona dose di reti mancate dal calciatore tedesco: gran lavoratore, meno finalizzatore. Una opera costruita nelle sessioni di lavoro di Cobham che ha, incofutabilmente, dato i suoi frutti. Specialmente nelle gare in cui i blues si sono poi trovati a gestire un vantaggio. Mentre, in situazioni di punteggio differenti, le cose hanno assunto un aspetto disuguale.

Chelsea
Stamford Bridge, stadio del Chelsea - Photo by Il Calcio a Londra

Si perchè, per far in modo che la ipotesi "verticalità" funzioni, vi è una sola necessità, assoluta: spazio. Senza quello da attaccare, la stessa cessa di aver logica e il problema non si risolve. Quando il Chelsea va sotto e deve recuperare, si intuisce come la ricerca continua, a volte esasperata, di Werner non rappresenti più una soluzione utile a risolvere l'equazione. Senza campo da attaccare, il tedesco ha dimostrato di perdere moltissimo della sua forza: nonostante questo, lo spartito tattico si è cambiato raramente e i due centravanti in rosa nono sono stati mai chiamati in causa, se non per scampoli di gara. Perchè? Questo è l'aspetto principale su cui la squadra di Tuchel può e deve migliorare: trovare un'alternativa se il piano-a non funziona. Sia chiaro, sicuramente ci sarà, ma sul campo da gioco, ancora non si è vista. E sabato, Signore e Signori, servirà anche quella. Servirà tutto il possibile. Forse, anche oltre.

Per la storia. Per l'onore. Per la gloria.

La terza finale di Champions della storia dei blues è, di fatto, quella meno attesa e forse, proprio per questa, più bella: il triste epilogo di Mosca del 2008 e la trionfante notte di Monaco del 2012 erano epiloghi di annate in cui il Chelsea era, se non la migliore, tra le squadre più forti d'Europa. Una compagine che annoverava talento ed esperienza, fame e coraggio, un ciclo chiusosi con le lacrime di gioia di quel 19 maggio 2012, data scolpita in eterno nella memoria del club. La società di Abramovic ha saputo però reinventarsi e rimanere competitiva nel corso degli anni, come dimostrano i vari trofei vinti; solo due estati fa, con il blocco el mercato, il club ha cambiato strategia puntando sul proprio (florido) settore giovanile, rilanciando le sempre alte ambizioni nel nome di un senso di appartenenza, distante ormai da anni dalla filosofia della società. Il mercato successivo, della scorsa estate, è stato quello del ritorno alle grandi spese, indirizzate questa volta, però, ad un investimento a lungo termine: giocatori giovani, forti, ma con del potenziale ancora da mostare, per assicurarsi un roseo domani. E, nonostante una prima fase di stagione non positiva, terminata con l'esonero di Frank Lampard, i primi responsi sono stati più che incoraggianti: subito due finali conquistate, quella di Fa Cup( persa con il Leicester) e quella, prestigiosissima, di Champions di sabato prossimo con il Manchester City.

Chelsea
Stamford Bridge Chelsea - Photo by Andreas H. from Pixabay

Chiaro come sia difficile descrivere l'importanza di una finale di Champions League, di come aggettivi e ornamenti verbali non possano realmente fotografare l'emozione, la trepidazione, l'eccitazione dell'evento stesso: sentimenti che valgono per tutto l'ambiente che circonda un club, dai tifosi alla società, dai media ai calciatori stessi. Queste, spesso, per molti giocatori sono "le gare di una vita", quelle che capitano una volta. La preparazione alla stessa esula quindi dalla normale routine: tutto è diverso, magico e assume contorni differenti. L''attesa, in questi casi, vale quanto la gara stessa. Una partita che necessita che sia lo spogliatoio a prendere le redini di un cuore che batte a mille: lo sa anche un Tuchel, giunto già lo scorso anno all'ultimo atto, per poi venir sconfitto dalla corrazzata Bayern; in queste gare i leader preparano la gara, gestiscono i battiti e le parole. Parole, che in questi casi, valgono quanto uno schema, una idea. Perchè in campo, sabato sera, non scenderanno solo le abilità tecniche dei calciatori, ma tutto il resto che fa di un calciatore un uomo: mille stati d'animo che si incroceranno sul manto verde. Chi li saprà controllare, avrà più chance di vincere. Il resto lo faranno i dettagli o la giocata di un campione. La speranza di Tuchel e del mondo Chelsea è che questo, abbia la maglia blues.

Londra sogna la sua seconda Coppa dei Campioni.

Pierluigi Cuttica

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