I Busby Babes: la working-class conquista l’Europa
6 febbraio 1958
Il 6 febbraio 1958 è una data che i tifosi del Manchester United hanno scolpita nel cuore e nella mente. Uno dei momenti più tristi di tutta la storia del football d’Oltremanica, la scomparsa di un gruppo di ragazzi, formidabili sul campo, ma che rappresentavano molto di più. Erano il simbolo della working-class britannica, coloro che con grandi sforzi avevano contribuito in maniera fondamentale alla rinascita della Gran Bretagna al termine della Second guerra mondiale.
Colui che plasmò e guidò questa squadta fu lo scozzese Matt Busby, nato nel 1909 a Orbiston, un villaggio di minatori di carbone a quindici chilometri da Glasgow. Un’infanzia difficile la sua, perse suo padre e i suoi zii nella Prima guerra mondiale e, se non fosse stato per il football, il suo destino sarebbe stato quello di fare il minatore come voleva la tradizione della sua famiglia. Dopo una breve parentesi calcistica con le casacche del Manchester City e del Liverpool, si arruolò nell’esercito durante il secondo conflitto mondiale. Prestò servizi, come molti altri calciatori dei Reds, nel King’s Liverpool Regiment, dove divenne ben presto ufficiale nel Corpo di Addestramento. Questa esperienza gli permise di affinare le sue già chiare capacità di allenatore, tanto da valergli, una volta terminata la guerra, un posto come assistente dell’allora manager George Kay. Come spesso accade però, le idee calcistiche e la visione di Busby differivano completamente sia da quelle di Kay che dal consiglio direttivo dei Reds.
Rimasto libero accettò la proposta del Manchester United con il quale firmò un contratto di 5 anni, un’autentica rarità per l’epoca, convinto che per poter iniziare un ciclo vincente ci volesse del tempo. Stravolse completamente il ruolo di manager all’interno del club, assumendo pieni poteri sia a livello gestionale che sulla scelta dei giocatori. Con lui, in questa nuova avventura portò il gallese Jimmy Murphy, l’amico di una vita e Joe Armstrong, ex giocatore con un fiuto particolare nel ricercare nuovi talenti.
I primi anni
I primi anni furono avari di trofei, ereditò riuscendo a vincere solamente una FA Cup nel 1948, Busby stesso aveva ormai intuito che per poter ambire a ben altri palcoscenici serviva una profonda ristrutturazione e svecchiamento della squadra. Fu in quel momento che arrivò la più grande intuizione del manager scozzese: la situazione della Gran Bretagna nel dopoguerra era ancora difficile, la povertà era largamente diffusa e la classe operaia faticava a riprendersi da un conflitto che aveva visto l’economia sprofondare nuovamente in una profonda crisi. Era proprio sui valori dei figli della working-class in cerca di riscatto che Busby voleva far leva per costruire il suo nuovo United. Insieme a Murphy e Armstrong, partirono alla loro ricerca di giovani talenti iniziando proprio dalle aree industriali della periferia di Manchester, lì dove il football era divenuto ormai molto popolare tra i ragazzini, che tra le case di mattoni rossi trascorrevano le giornate inseguendo un pallone. A Gorton, celebre per le sue fabbriche di locomotive, venne scoperto Roger Byrne, il primo ad essere reclutato da Busby e futuro capitano. A Salford, famoso quartiere industriale con un alto tasso di povertà, scoprirono Eddie Colman, Geoff Bent e Wilf Mc Guinness. A sud di Manchester invece, più precisamente a Hulme, protagonista di ampie descrizioni da parte di Friedrich Engels riguardo le drammatiche condizioni abitative e igienico sanitarie soprattutto dei lavoratori irlandesi all’epoca della rivoluzione industriale, scoprirono Albert Scanlon. Quattro chilometri più a sud, a Fallowfield, trovarono un giovane Dennis Viollet, che sarà un altro dei protagonisti di questa grande squadra. Il progetto di Busby di scovare talenti non si limitò alla sola periferia mancuniana ma le ricerche si estesero a tutta l’Inghilterra che venne girata da nord a sud. A pochi chilometri da Liverpool, nella società dilettantistica Whiston Boys Club, giocava nelle pause dal lavoro in miniera, un giovanissimo Bill Foulkes, il quale venne convinto da Busby a lasciare le fredde gallerie di carbone per diventare un calciatore professionista. A Wombell, nel West Riding of Yorkshire, scovarono Mark Jones che, oltre alla passione per il football lavorava come muratore. Ad Highfield, vicino Doncaster scoprirono un appena diciassettenne David Pegg, figlio di un minatore, infine nel nord dell’Inghilterra, precisamente a Hebburn, centro minerario a pochi chilometri da Newcastle (che, dopo la chiusura del 1932, attraversava un momento di forte crisi occupazionale), venne scoperto il portiere Ray Wood. Fu però un ragazzone di Dudley, cittadina delle Midlands, una zona divenuta molto famosa per le sue industrie del ferro e del carbone, le cui ciminiere rendevano il cielo nero anche in pieno giorno e per questo soprannominata “Black Country”, a cui lo stesso J.R.R Tolkien si ispirò per l’ambientazione di Mordor nel suo celebre romanzo Il Signore degli Anelli, ad attirare particolari attenzioni degli osservatori di Busby. Vista la vicinanza con Wolverhampton e i grandi risultati che i Wolves stavano ottenendo in quel periodo, nessuno si sarebbe immaginato che Duncan Edwards, in realtà fosse un grandissimo tifoso del Manchester United. Inizialmente Busby, che ormai di giovani talenti ne aveva visionati a centinaia, era diffidente nei confronti di Duncan. Solo le parole di Jimmy Murphy riuscirono a convincerlo, egli stesso gli assicurò di aver trovato il centrocampista più forte e completo mai visionato prima dotato di un buon tiro da fuori area e di mezzi tecnici straordinari, un talento puro che avrebbe dato un grande contributo sia al club, che all’intero movimento calcistico britannico.
La concorrenza
Convinto il manager scozzese, bisognava battere la concorrenza degli altri club che da tempo ormai facevano la corte al giovane Edwards. Murphy e il suo assistente ingaggiarono una vera e proprio lotta contro il tempo, arrivando a Dudley nel cuore della notte e svegliando tutta la famiglia Edwards per far firmare a Duncan il suo primo contratto da professionista che lo avrebbe finalmente legato al club dei suoi sogni. La squadra di Busby prendeva così forma, mancava però ancora qualche pedina, dal nord-est dell’Inghilterra, precisamente da Ashington, una delle zone minerarie più famose del paese, gli segnalarono un giovanissimo Robert Charlton, da tutti chiamato Bobby. Giovane mancino naturale, dotato di grande intelligenza tattica. La grande squadra di osservatori del manager scozzese, anche questa volta aveva fatto un ottimo lavoro riuscendo a superare anche in questo caso le forti pressioni del Newcastle. Dopo aver girato in lungo e in largo tutta l’Inghilterra Busby decise di concedersi delle eccezioni sia a livello economico, andando a comprare giocatori già affermati e territoriale, varcando i confini della terra d’Albione. Per quando riguarda la ricerca extraterritoriale, le attenzioni del team di osservatori si rivolsero a Belfast, nell’Irlanda del Nord dove trovarono John Blanchflower, in Galles dove vennero scoperti Colin Webster e il diciottenne Kenny Morgans. A Dublino, in un sobborgo popolare, gli venne segnalato William Whelan, soprannominato Liam, un ragazzo della classe operaia che venne strappato ad un futuro nel sacerdozio per via delle sue notevoli qualità calcistiche che impressionarono gli osservatori di Busby. Le eccezioni economiche invece, vennero fatte per due giocatori, Tommy Taylor e John Berry; il primo appena ventiduenne, iniziò a giocare all’età di quindici anni nella locale squadra di minatori prima di firmare un contratto da professionista nel Barnsley, dal quale venne comprato per sessantacinquemila sterline, una cifra enorme per l’epoca. Berry invece, lavorava come proiezionista in un cinema prima di firmare per il Birningham City ed essere acquistato successivamente dallo United per circa venticinquemila sterline.
I Busby Babes
I Busby Babes, così venne soprannominata la squadra da Tom Jackson, giovane caporedattore del Manchester Evening News, furono protagonisti indiscussi della scena calcistica nazionale dalla metà degli anni Cinquanta in poi. Vennero plasmati secondo le volontà e le idee del proprio allenatore il quale gli trasmise tutta la sua grinta e carisma, senza rinunciare, però, al bel gioco. Lo stile working-class si rifletteva nei valori dei giocatori, i quali sapevano di essere comunque dei privilegiati, essendo pagati per giocare a football; inoltre, nessuno dimenticava le proprie origini, nota che forniva alla squadra una marcia in più. Nonostante ci volle del tempo perché la squadra cominciasse a vincere, nel 1956 i Babes conquistarono il loro primo campionato, riportando i Red Devil’s a vincere un trofeo. La vittoria della Football League glie diede inoltre, l’accesso alla Coppa dei Campioni che negli anni aveva assunto una sempre maggiore importanza nel panorama calcistico internazionale. Era un momento storico particolare per la Gran Bretagna che stava attraversando la pesante crisi di Suez mettendo definitivamente la parole fine al ruolo da protagonista nello scacchiere internazionale, una eventuale vittoria in una competizione europea andava quindi oltre il solo successo sportivo. Alla loro prima partecipazione i ragazzi di Busby non sembrarono inizialmente trovare ostacoli sul loro cammino, almeno fino a quando non trovarono in semifinale nel 1957, il Real Madrid di Alfredo di Stefano. Ne uscirono sconfitti ma con grande onore, avendo dovuto affrontare una delle squadre più forti e vincenti di quel periodo ma si consolarono immediatamente con la vittoria del secondo campionato consecutivo. All’inizio della stagione 1957/58 l’obiettivo per Busby e i suoi ragazzi era conquistare finalmente l’Europa. Il nuovo cammino verso la finale iniziò con un agevole passaggio del turno e ai quarti di finale toccò la sfida contro la Stella Rossa di Belgrado. L’andata si concluse per 2 a 1 per lo United all’Old Trafford, il ritorno era in programma il 5 febbraio. Davanti ad uno stadio completamente esaurito i Red Devil’s chiusero il discorso qualificazione già nel primo tempo con un sonoro 3 a 0 e a nulla valse la rimonta della squadra di casa. Il 3 a 3 finale
voleva dire semifinale contro il Milan. Lo stesso Busby non molto incline a concedere ai propri giocatori momenti di svago, fece un’eccezione, lasciandoli liberi di festeggiare la conquista di una meritata semifinale. Il giorno successivo era in programma il rientro a Manchester. Il fitto calendario dell’allora Football League prevedeva che lo United avrebbe dovuto giocare dopo due giorni, era opinione diffusa tra i vertici del massimo campionato inglese che le competizioni europee fossero per quanto riconosciute importanti ormai da tutti un’autentica perdita di tempo per via di un ancora antiquata pretesa che il football inglese fosse superiore a quello continentale.
Il lungo viaggio di ritorno prevedeva quindi uno scalo all’aeroporto di Monaco di Baviera per effettuare un rifornimento di carburante ma una volta arrivati nella città tedesca si abbatté una abbondante nevicata e le condizioni meteo erano in peggioramento. I primi due tentativi di decollo fallirono e, dopo un breve consulto con i tecnici dell’aeroporto, si decise di optare per un terzo tentativo invece di rimandare la partenza al giorno successivo.
La terza manovra di decollo
Durante la terza manovra di decollo, l’areo perse potenza e divenne ingestibile, finendo la sua corsa su un’edifico in fondo alla pista; l’aereo si accartocciò su sé stesso e, successivamente, si spezzò a metà, esplodendo. Erano le 16.08 del 6 febbraio 1958. Delle quarantotto persone a bordo tra giocatori, staff tecnico, dirigenziale e un gruppo di giornalisti, ben ventitré persero la vita. Di questi, otto giocatori, tra cui Roger Byrne, Tommy Taylor, Eddie Colman, Jeff Bent, Mark Jones, Liam Whelan e David Pegg, morirono sul colpo. Tra i superstiti, apparvero subito gravi Busby, John Berry, Danny Blanchflower e Duncan Edwards. Lo scenario che i soccorritori si trovarono davanti fu drammatico. Il giovane portiere Harry Gregg, acquistato un anno prima, prestò assistenza come meglio poteva ai suoi compagni, mentre i superstiti a fatica capivano quanto stesse accadendo.
La notizia dell’incidente, giunta con qualche ora di ritardo, mise sotto shock tutta l’Inghilterra, ma soprattutto Manchester, dove la squadra era anche il simbolo di una città e di un’intera comunità. Fu la peggior tragedia mai accaduta ad una squadra di calcio inglese; molti la paragonarono alla tragedia di Superga del 1949, anche e soprattutto come impatto sociale. Le settimane successive vennero organizzati i funerali delle vittime, mentre c’era chi ancora lottava per la vita. Sia Johnny Berry che Danny Blanchflower sopravvissero, ma non furono più in grado di giocare a football. Matt Busby, dopo settimane d’inferno, riuscì a cavarsela, a differenza di Duncan Edwards. Il ragazzone di Dudley combatteva da settimane in ospedale e, nei rari momenti di lucidità, chiedeva al medico se sarebbe potuto scendere in campo il sabato successivo contro il Wolverhampton, squadra di cui suo padre era grande tifoso. Il 21 febbraio, Edwards si arrese per sempre all’età di ventuno anni; il Manchester United morì una seconda volta, insieme alla cittadina di Dudley, che vedeva in lui un figlio della classe operaia locale, emblema di chi ce l’aveva finalmente fatta realizzando il proprio sogno.
La tragedia dei Busby Babes aveva interrotto il sogno calcistico di una squadra che rappresentava qualcosa che andava oltre il football. Era la speranza di un Paese che a fatica usciva dai sacrifici della ricostruzione del dopoguerra e sportivamente un gruppo di giovani provenienti dalla working-class britannica, che stava lasciando un segno indelebile in Europa. Matt Busby, una volta ripresosi, si rimise subito al lavoro insieme al suo fedele vice Jimmy Murphy (che sopravvisse per impegni legati alla nazionale gallese), per onorare la memoria dei suoi ragazzi. Nonostante tutto, il football britannico aveva finalmente lasciato un segno indelebile in Europa con una squadra capace di far parlare di sé anche al di fuori dei confini nazionali.
Ancora oggii i Busby Babes, entrata di diritto nel cuore di tutti i tifosi dei Red Devil’s vengono ricordati, ogni 6 febbraio, anniversario della loro morte, e con una statua dedicata proprio a Matt Busby fuori dall’Old Trafford capace di riuscire a vendicare i suoi ragazzi nel 1968 ma questa è un’altra storia.
Questi ragazzi in fondo non sono mai morti perché hanno lasciato in eredità un valore sportivo, umano e sociale che li ha fatti entrare sia nella storia di questo leggendario club sia nel cuore di tutti gli appassionati di football
di Francesco Giuseppe Santocono