Per raccontare questa storia ci catapultiamo indietro nel tempo, esattamente nell’estate del 1986. Per spiegare cosa fossero Ian Wright e Mark Bright per il Crystal Palace, basterebbe infilare una manciata di numeri gelidi. Wrightly, per dirne una, è diventato il miglior marcatore di sempre per le Eagles, dal dopoguerra in poi: 117 gol in 253 match spalmati in sei anni con la casacca dei south londoners. Un’autentica macchina da guerra. E Mark, certo, si difendeva con gli ammennicoli quando si trattava di indovinare lo specchio: arriva in prova per 3 mesi nel 1986 – a causa di alcuni dubbi sul suo fisico – e viene inserito subito nella Top 11 della Second Division a fine stagione. Il Palace non riesce a tornare su quell’anno, ma nel 1987/88 Bright si mette in bacheca il Golden Boot e, insieme al gemello illegittimo Wright, issa le aquile in paradiso l’anno successivo.

La coppia atomica posa divertita insieme al manager Steve Coppel

Ora, è legittimo, ve lo concedo. Uno potrebbe pensare che chi viene da una categoria inferiore poi fatichi maledettamente quando si tratta di fare il grande salto. Solo che le cose vanno più o meno così: nessuno informa i gemelli del gol delle potenziali difficoltà e loro, come se nulla fosse cambiato, continuano a dilaniare le retroguardie altrui. La ritmica è perfetta: quando Bright viene incontro per fare sponda attiva la visuale periferica e lancia Wright nello spazio. E viceversa. Diversi per fisico e movenze, dannatamente complementari, ingestibili per i macchinosi impianti difensivi britannici.

Alla prima stagione tra le divinità di quella First Division, che nel 1992 sarebbe diventata Premier League, la coppia riesce a salvare il Palace con un margine di cinque punti sulla zona retrocessione. L’unico vero neo di quella stagione resta la tramortente figura rimediata ad Anfield: un 9-0 terrificante. Bright ebbe a definire quell’esperienza con una sola parola: numbing. Paralizzante.

L’apice della loro florida esperienza al Palace resta sicuramente la F.A. Cup del 1990, con quel replay giocato in finale contro lo United, dopo che Wright aveva rimesso i suoi in carreggiata con uno spaziale hat-trick nel primo match. La vittoria dei Red Devils nulla tolse ad una cavalcata intrisa di surrealismo e bellezza. Come la telefonata, raccontata dallo stesso Mark, alla mamma di Ian. Bright, squalificato nel turno precedente contro lo Sheffield Utd, dovette saltare la sfida contro il Cambridge. Siccome lo sponsor delle Eagles era la Virgin, il club decise di accordargli un permesso premio per andare a sbollire la delusione nella ammiccante Miami. Ora è in una stanza d’albergo e freme per conoscere il risultato: all’epoca non esistevano internet o smartphone, quindi telefona a casa della mamma di Wright.

La cosa andò esattamente così:

“Mummy, sono Mark, come sta andando?”. 

“Dove sei?”

“Ho chiesto come sta andando?”.

“Dove sei?”. 

“In America”.

“E che ci fai America?”.

“Ho preso una piccola pausa. Come sta andando?”.

“Abbiamo vinto 1-0. Ha segnato Geoffe Thomas”. 

Successivamente il cavo che corre in fondo all’oceano trasporta le grida di gioia di Bright, che salta sul divano come un forsennato. L’unica vera consolazione per lui, dopo la sconfitta in finale, sarà quella di essere nominato player of the year dal Palace. Quanto a Wright, beh..nel 2005 il club lo ha nominato giocatore del secolo.

Wright e Bright celebrano l’ennesimo successo colto insieme

Insieme, l’atomico duo issa il Palazzo di Cristallo verso vette inedite: nella stagione successiva (1990-91) arriva un incredibile terzo posto per il club. L’istantanea più netta del loro dilagante strapotere resta però probabilmente scolpita nell’8-0 rifilato al Southend Utd in League Cup, il 25 settembre 1990: in quell’occasione entrambi infilarono una tripletta.

Wright lascerà le Eagles un anno prima di Mark, per andare a giocare nell’Arsenal. Bright segnerà il primo gol della nascente Premier League, nel 1992, prima di passare allo Sheffield Wednesday. Tanti anni dopo il ricordo di Ian Wright e Mark Bright continua a evocare nostalgia ma fa sorridere il pensiero di averli visti giocare insieme, nella stessa squadra.

di Paolo Lazzari